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Collezione permanente

La visita alla collezione permanente è accompagnata, su prenotazione e riservata a un massimo di 25 visitatori per volta, nei seguenti orari:

  • Giovedì e venerdì ore 15.00
  • Sabato e domenica ore 10.30 e 15.00

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Mostre temporanee

L’accesso alle mostre temporanee non richiede la prenotazione ed è libero negli orari di apertura della Collezione Maramotti:

  • Giovedì e venerdì dalle 14.30 alle 18.30
  • Sabato e domenica dalle 10.30 alle 18.30

Il luogo per l'arte contemporanea


L'edificio storico

Lo stretto legame con la propria sede espositiva rende la Collezione Maramotti un luogo in cui arte, storia e memoria si intrecciano. In via Fratelli Cervi 66 a Reggio Emilia è situato il primo stabilimento della casa di moda Max Mara, che inizia la sua attività nel 1951.

La prima fabbrica Max Mara

L’edificio, commissionato nel 1957, viene progettato dagli architetti Antonio Pastorini ed Eugenio Salvarani, e successivamente ampliato due volte dalla Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia nel corso degli anni Sessanta.
Si tratta di un'architettura innovativa per la sua epoca, caratterizzata dalla piena valorizzazione di una ventilazione e di un’illuminazione naturali. La collocazione degli elementi di servizio all’esterno del corpo centrale ha lo scopo di creare uno spazio interno totalmente flessibile.
Nel 2003 il quartier generale di Max Mara si trasferisce nella zona nord della città di Reggio Emilia, accanto ai tre ponti e alla stazione ferroviaria dell’alta velocità progettati dall’architetto Santiago Calatrava. Si decide dunque di trasformare la struttura industriale della prima sede in uno spazio espositivo per ospitare la collezione d’arte contemporanea del fondatore di Max Mara, Achille Maramotti (1927 - 2005).

La conversione dell'edificio

La conversione, affidata all’architetto inglese Andrew Hapgood e avvenuta tra il 2003 e il 2007, segue i criteri di valorizzazione e di conservazione della memoria del luogo, preservando la cruda essenzialità della costruzione e la logica del progetto originale, che la concepiva come struttura adattabile a molteplici scopi e capace di trasformarsi secondo diverse necessità.

Tra gli elementi innovativi, l’intervento che modifica la percezione dell’edificio attraverso un nuovo orientamento dell’ingresso principale: un nuovo “taglio”, parallelo a via Fratelli Cervi, crea ampie entrate sulle facciate est e ovest, accompagnando il visitatore al centro della nuova galleria. Inoltre, un grande cavedio nella parte centrale del corpo di fabbrica si configura come un “asse” attorno a cui ruota il percorso espositivo. L’apertura di lucernari al secondo piano, insieme alle vetrate perimetrali, conferisce continuità e dialogo tra gli spazi esterni e l’interno. Al di là di questi interventi, funzionali alla rinnovata identità dello spazio, l’edificio conserva ancora la sua memoria storica, nella struttura e nei dettagli. Esempi di ciò sono le macchie e i segni sul pavimento lasciati dai macchinari tessili, il numero civico all’esterno del lato nord, le maniglie originali delle finestre che si possono ritrovare durante la visita della Collezione.

L'edificio che ospita la Collezione

L’edificio accoglie oggi una molteplicità di spazi funzionali alle diverse attività che in esso si svolgono.

Lo spazio al piano terra accoglie la reception, tre spazi espositivi, gli uffici, la biblioteca e l’archivio. Questi ultimi ospitano documenti, volumi, cataloghi e libri d’artista, legati in particolare agli artisti rappresentati nella Collezione Maramotti.

I primi due piani dell’edificio sono dedicati alla collezione permanente. Le gallerie sono ampiamente illuminate a giorno dalla vetrata perimetrica originale, con i gradi di esposizione solare e i livelli luminosi controllati dalla tettoia solare esterna, installata negli anni Settanta e in seguito ristrutturata.

Il contesto paesaggistico, progettato dalla landscape architect Lucy Jenkins, è stato realizzato secondo gli stessi principi della conversione dell’edificio, utilizzando specie vegetali e soluzioni ornamentali tipiche del territorio, allo scopo di rafforzare l’idea di una ricolonizzazione del luogo come paesaggio post-industriale.