It starts with the firing

Elisabetta Benassi

07 maggio – 17 settembre 2017

It starts with the firing è il nuovo progetto di Elisabetta Benassi, concepito specificamente per Collezione Maramotti.

Punto di avvio della mostra è la polemica nata intorno a un’opera del 1966 dell’artista americano Carl Andre, intitolata Equivalent VIII, composta da 120 mattoni posizionati su due file sovrapposte a formare un rettangolo. Il lavoro venne acquistato dalla Tate Gallery di Londra nel 1972 per diverse migliaia di sterline. La stampa inglese dell’epoca attaccò l’acquisto ridicolizzando la decisione del museo con articoli e vignette. Elisabetta Benassi è tornata sulle tracce di questi materiali, ora conservati nell'Archivio della Tate (curiosamente, riuniti da Carl Andre stesso e donati al museo), per riaprire quella polemica e rimetterla in movimento, estrapolando alcune frasi dai ritagli dei giornali originali, riuniti in un libro d’artista e trasformati nei manifesti affissi a Reggio Emilia.

La mostra inizia dunque fuori, nella città: cinque frasi stampate su manifesti affissi in periferia e sugli autobus che attraversano il centro storico di Reggio Emilia. Sono in inglese, parlano di mattoni: Upon these bricks; Bricks a hot favourite; The bricks pull the crowds; This Bricks could build a bad reputation; A brick is a brick is a brick...; My wall is going cheap; Gallery bricks silence; Money crisis and the art Bricks; Man behind the bricks; The bricks are useful; Art may come and art may go but a brick is a brick for Ever. Bricks are for homes!

A cosa si riferiscono? Si tratta di una campagna pubblicitaria? Sono slogan politici? Che relazione c’è tra i mattoni e l’arte?

Dal fuori al dentro, dalla città alla Collezione Maramotti, i manifesti ci accompagnano nello spazio dell’esposizione. Le opere di Elisabetta Benassi mettono in relazione “oggetti”che appartengono alla storia del luogo – la prima fabbrica di Max Mara, ora sede della Collezione – con altre presenze che si legano a una vicenda più ampia, non solo italiana, creando una serie di “tappe” in un percorso che può essere liberamente composto dallo spettatore. Ogni stanza presenta un’opera sopravvissuta alla sparizione del contesto che inizialmente la ospitava. Alcuni “oggetti” si presentano con i loro “nomi”: Prosperity, Empire (che riprende un’altra opera di Andre), sono marchi ma soprattutto metafore, oracoli che ci rivolgono ironicamente dei quesiti.

Essi ci appaiono allo stesso tempo familiari e incongrui. Una stiratrice industriale a vapore, tappeti che si incuneano in un muro di mattoni, un pilastro sghembo che esibisce il suo orgoglioso trademark: dispositivi che riassumono in forma ironica le contraddizioni della storia, gli scivolamenti, a volte i veri e propri collassi del senso che essa ha imposto ai nomi e alle cose. Ma l’instabilità, gli enigmi che queste opere propongono non hanno nulla di vago; puntano invece a qualcosa che ci è sin troppo familiare: la perdita di fiducia nelle promesse della tecnica, il mondo postumo che viene dopo i fallimenti sia delle ideologie che dei loro supposti rimedi, l’abbandono alle forze che disperdono, rinselvatichendole, memorie e comunità.

Cosa ci insegna quella lontana polemica intorno all’opera di Carl Andre conservata alla Tate? Probabilmente che le nostre certezze sulla maggiore lungimiranza e sensibilità del nostro tempo sono in sostanza illusioni, che i “mattoni” della nostra società – come i “valori” in cui essa confida – sono sempre precari, che le strutture sono sempre sul punto di crollare, ma anche capaci di trasformarsi, nelle mani dell’artista, da elementi in qualche modo vincolati a tessere di un mosaico multiforme.

La mostra è presentata in occasione del festival di Fotografia Europea 2017.